Dopo il sisma che ha colpito il Giappone lo scorso undici marzo, il Nippon Budokan (un’arena situata nella zona centrale di Tokyo, costruita nel 1961 in vista delle Olimpiadi di Tokyo del 1964) è diventato un rifugio sicuro e altamente organizzato per circa trecento terremotati. Tra questi ve ne sono alcuni che forse mai potranno fare ritorno alle loro case: gli abitanti della zona di Fukushima, la città giapponese interessata dalle fughe radioattive dovute al surriscaldamento del nocciolo di alcuni reattori, a seguito dei cedimenti strutturali causati dallo tsunami. Oggi il Telegraph offre uno spaccato della vita all’interno del palazzetto con particolare attenzione alle aspettative e alle paure delle persone che hanno trovato rifugio sotto il tetto del Budokan, lontane dal pericolo radioattivo. Le possibilità di fare ritorno alle proprie abitazioni e alla propria città natale sono legate, per gli abitanti di Fukushima, al tempo di dimezzamento degli isotopi radioattivi (la quantità di tempo che occorre affinché la metà degli atomi di una data quantità pura dell’isotopo in questione decada, cioè si trasformi in un altro elemento, disintegrandosi). A questo proposito rivestirà un ruolo molto importante anche la fiducia nel governo, e nelle dichiarazioni dei suoi esponenti, da parte dei giapponesi, che attualmente è in netto ribasso. Molte delle persone sfollate al Budokan temono fortemente che non rivedranno Fukushima e che le loro case saranno condannate a marcire in una città resa fantasma dalla minaccia radioattiva. Inoltre tutti hanno già capito che, in futuro, Fukushima verrà ricordata, con Chernobyl, come il disastro nucleare per eccellenza e l’esempio di ciò che non deve accadere. Hinata Sahara è una bimba di otto anni, giunta al Budokan con la sorella minore e la madre, e al cronista che le chiede perché ha dovuto lasciare la sua casa, risponde: “Houshanou (radiazione in giapponese) – e aggiunge – sì, lo so cos’è, è aria cattiva e fa venire il cancro agli esseri umani. Non la puoi vedere ma la puoi respirare e poi ti ammali. Io voglio tornare a casa ma dobbiamo aspettare fino a che (houshanou) non se ne va”. Il parquet del Budokan e affollato di persone che dormono avvolte nelle coperte, lo spazio viene diviso tra le famiglie presenti, la maggior parte con bambini, che costruiscono delle piccole residenze “private” circolari utilizzando tappetini, come pavimento, e cartoni come pareti. I nuovi arrivi vengono scrupolosamente registrati da funzionari municipali e benchè la situazione sia piuttosto affollata, tutti si attengono alle regole del vivere civile. Ogni giorno arrivano al Budokan numerosi pacchi anonimi che contengono vestiti per bambini, dolciumi, frutta e libri, dono silenzioso degli abitanti di Tokyo. Le persone fanno la fila ordinatamente per avere accesso a una delle due postazioni internet disponibili o per telefonare. Oppure stazionano davanti all’unico televisore alla ricerca di notizie aggiornate sull’evoluzione della situazione. Il ventenne Ryo Igarashi è fuggito non appena ha saputo dei problemi alle centrali, con lui la fidanzata, la madre e la nonna. “Ci sono voluti nove giorni. Siamo partiti il tredici e siamo arrivati qui il ventuno di marzo. Fukushima non è lontana (224 chilometri), ma non sapevamo dove andare. I media ci hanno detto di andare via dai dintorni della centrale e così abbiamo fatto, ma non sapevamo a chi chiedere indicazioni e non riuscivamo a trovare carburante. Così, dormivamo in macchina e ascoltavamo le news alla radio. Abbiamo continuato ad andare avanti e, alla fine, siamo arrivati qui. Ora siamo abbastanza lontani”. In piena notte, la tv del Budokan trasmette la notizia che finalmente i sei reattori di Fukushima sono stati nuovamente connessi alla rete elettrica e tra i pochi ancora svegli si diffonde una scossa di eccitazione. “Questo significa che possono far ripartire il sistema di raffreddamento – esclama Ryo Igarashi – e che forse un giorno potremo fare ritorno a casa”. Buona fortuna, in giapponese, si dice ganbatte-ne.