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Così è stata ribattezzata la cittadina tedesca di Wewelsfleth nella regione dello Schleswig-Holstein a causa della spaventosa incidenza del cancro tra i suoi abitanti. Tra i 1500 residenti di Wewelsfleth il tasso di tumori è del cinquanta per cento superiore alla media nazionale. I cittadini chiedono alle autorità di scoprire le cause dell’anormale diffusione di patologie tumorali, sottolineando la presenza di tre centrali nucleari in un raggio di pochi chilometri dal “Villaggio dei dannati”. Un recente studio dell’Università di Lubecca pur prendendo in considerazione tutte le caratteristiche ambientali e della popolazione di Wewelsfleth (incluse l’abitudine al fumo, le centrali nucleari e un cantiere nelle vicinanze che usa vernici altamente tossiche) non ha trovato indizi sufficienti per risolvere l’inquietante “epidemia” di cancro che colpisce gli abitanti della cittadina tedesca alla foce dell’Elba.

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Naoto Matsumura, cinquantadue anni, ha trascorso tutta la sua vita a Tomioka, una cittadina che dista sedici chilometri da Fukushima, e non intende andarsene. Questo nonostante il piano di evacuazione ordinato dal governo giapponese abbia previsto di allontanare tutti coloro che abitavano nel raggio di venti chilometri dai reattori della centrale danneggiata dall’accoppiata killer terremoto/tsunami dell’ 11 marzo scorso. L’uomo, agricoltore da cinque generazioni, ha iniziato la sua disobbedienza proprio il giorno dopo il terremoto, il 12 marzo, mentre i 78mila residenti nell’area a maggiore rischio di contaminazione radioattiva abbandonavano le loro case. Il piano approntato dalle autorità però non prevedeva alcuna misura per evacuare anche le migliaia di animali che si trovavano sul territorio. Matsumura è rimasto a casa soltanto per nutrire i suoi animali; ma poco alla volta molti cani e gatti abbandonati, spinti dalla fame, hanno iniziato ad avvicinarsi alla sua proprietà. Da allora l’unico residente della zona è anche l’unica fonte di nutrimento per un gran numero di animali randagi. A quasi un anno di distanza dal disastro nucleare, l’area di venti chilometri di raggio che si estende attorno a Fukushima è un cimitero a cielo aperto. Le carcasse di cani, gatti ma anche di mucche e maiali sono sparse un po’ ovunque. Numerose associazioni animaliste avevano fatto pressione sul governo giapponese affinché si procedesse al salvataggio di tutti gli animali, ma le autorità hanno risposto che si trattava di un’operazione che comportava gravi rischi per coloro che sarebbero stati deputati a metterla in pratica. Nel dicembre scorso è stato consentito a un gruppo di animalisti l’ingresso nell’area evacuata. I volontari hanno portato via circa 250 cani e un centinaio di gatti, riuscendo in seguito a rintracciare l’80 per cento dei proprietari. “Sono pieno di rabbia – sbotta Naoto Matsumura, intervistato da Cnn – Ed è questa la ragione per la quale sono ancora qui. Mi rifiuto di andarmene portando con me questa rabbia e questo dolore. Piango ogni volta che guardo la città nella quale sono nato. Il governo e la gente di Tokyo non sanno quello che sta succedendo qui”. Da quando ha deciso di rimanere per dar da mangiare ai randagi, Naoto esce dall’area solo per procurarsi nuovo cibo per i suoi amici a quattro zampe. L’uomo rammenta che dopo alcune settimane dall’evacuazione la maggior parte delle mucche erano morte. Vermi e mosche ricoprivano le carcasse e l’odore era insopportabile. Ma la scena peggiore ricordata da Naoto Matsumura riguarda una mucca con il suo vitellino che l’agricoltore ritrovò in pessime condizioni nella fattoria di un vicino: “la mucca era pelle e ossa e il suo piccolo piangeva e cercava ostinatamente di attaccarsi alle mammelle della madre. Ma lei, forse temendo che se avesse nutrito il cucciolo sarebbe morta, lo allontanava scalciando. La scena si ripetè diverse volte e alla fine il vitellino si rintanò in un angolo della stalla e prese a succhiare della paglia, come se fossero le mammelle di sua madre”. Il giorno dopo Naoto tornò alla fattoria e trovò entrambi gli animali morti. E’ stato dopo avere assistito a decine di scene come questa che il signor Matsumura ha iniziato a concedere interviste ai corrispondenti esteri di varie testate, sottolineando come i media giapponesi stiano ignorando un aspetto drammatico delle conseguenze dell’incidente di Fukushima. “Il governo e la Tepco non stanno facendo nulla – sostiene Naoto Matsumura – Loro sono i responsabili e non ci considerano nemmeno delle vittime. Raccontano che stanno lavorando all’interno dell’area evacuata, ma in realtà non stanno facendo nulla”. Il ribelle solitario spera in un’accelerazione delle opere di bonifica perchè se mantengono il ritmo attuale teme che non vivrà abbastanza per vedere tornare a casa i suoi concittadini. Naoto Matsumura vive in una città fantasma, senza elettricità e beve l’acqua estratta da un pozzo vicino alla sua casa. Dopo essersi sottoposto agli esami per misurare i livelli di contaminazione il suo organismo è risultato “completamente contaminato”. Ma nemmeno questo è stato sufficiente a farlo recedere dai suoi propositi infatti, in qualità di unico cittadino di Tomioka, ha dichiarato di volere seguire da vicino le opere di bonifica commissionate dal governo. “Dobbiamo decontaminare quest’area o questa città morirà. Io rimarrò qui per essere sicuro che questo venga fatto e perchè voglio morire dove sono nato”.



Dopo il sisma che ha colpito il Giappone lo scorso undici marzo, il Nippon Budokan (un’arena situata nella zona centrale di Tokyo, costruita nel 1961 in vista delle Olimpiadi di Tokyo del 1964) è diventato un rifugio sicuro e altamente organizzato per circa trecento terremotati. Tra questi ve ne sono alcuni che forse mai potranno fare ritorno alle loro case: gli abitanti della zona di Fukushima, la città giapponese interessata dalle fughe radioattive dovute al surriscaldamento del nocciolo di alcuni reattori, a seguito dei cedimenti strutturali causati dallo tsunami. Oggi il Telegraph offre uno spaccato della vita all’interno del palazzetto con particolare attenzione alle aspettative e alle paure delle persone che hanno trovato rifugio sotto il tetto del Budokan, lontane dal pericolo radioattivo. Le possibilità di fare ritorno alle proprie abitazioni e alla propria città natale sono legate, per gli abitanti di Fukushima, al tempo di dimezzamento degli isotopi radioattivi (la quantità di tempo che occorre affinché la metà degli atomi di una data quantità pura dell’isotopo in questione decada, cioè si trasformi in un altro elemento, disintegrandosi). A questo proposito rivestirà un ruolo molto importante anche la fiducia nel governo, e nelle dichiarazioni dei suoi esponenti, da parte dei giapponesi, che attualmente è in netto ribasso. Molte delle persone sfollate al Budokan temono fortemente che non rivedranno Fukushima e che le loro case saranno condannate a marcire in una città resa fantasma dalla minaccia radioattiva. Inoltre tutti hanno già capito che, in futuro, Fukushima verrà ricordata, con Chernobyl, come il disastro nucleare per eccellenza e l’esempio di ciò che non deve accadere. Hinata Sahara è una bimba di otto anni, giunta al Budokan con la sorella minore e la madre, e al cronista che le chiede perché ha dovuto lasciare la sua casa, risponde: “Houshanou (radiazione in giapponese) – e aggiunge – sì, lo so cos’è, è aria cattiva e fa venire il cancro agli esseri umani. Non la puoi vedere ma la puoi respirare e poi ti ammali. Io voglio tornare a casa ma dobbiamo aspettare fino a che (houshanou) non se ne va”. Il parquet del Budokan e affollato di persone che dormono avvolte nelle coperte, lo spazio viene diviso tra le famiglie presenti, la maggior parte con bambini, che costruiscono delle piccole residenze “private” circolari utilizzando tappetini, come pavimento, e cartoni come pareti. I nuovi arrivi vengono scrupolosamente registrati da funzionari municipali e benchè la situazione sia piuttosto affollata, tutti si attengono alle regole del vivere civile. Ogni giorno arrivano al Budokan numerosi pacchi anonimi che contengono vestiti per bambini, dolciumi, frutta e libri, dono silenzioso degli abitanti di Tokyo. Le persone fanno la fila ordinatamente per avere accesso a una delle due postazioni internet disponibili o per telefonare. Oppure stazionano davanti all’unico televisore alla ricerca di notizie aggiornate sull’evoluzione della situazione. Il ventenne Ryo Igarashi è fuggito non appena ha saputo dei problemi alle centrali, con lui la fidanzata, la madre e la nonna. “Ci sono voluti nove giorni. Siamo partiti il tredici e siamo arrivati qui il ventuno di marzo. Fukushima non è lontana (224 chilometri), ma non sapevamo dove andare. I media ci hanno detto di andare via dai dintorni della centrale e così abbiamo fatto, ma non sapevamo a chi chiedere indicazioni e non riuscivamo a trovare carburante. Così, dormivamo in macchina e ascoltavamo le news alla radio. Abbiamo continuato ad andare avanti e, alla fine, siamo arrivati qui. Ora siamo abbastanza lontani”. In piena notte, la tv del Budokan trasmette la notizia che finalmente i sei reattori di Fukushima sono stati nuovamente connessi alla rete elettrica e tra i pochi ancora svegli si diffonde una scossa di eccitazione. “Questo significa che possono far ripartire il sistema di raffreddamento – esclama Ryo Igarashi – e che forse un giorno potremo fare ritorno a casa”. Buona fortuna, in giapponese, si dice ganbatte-ne.