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Uno studio della Oxford University in collaborazione con l’Aaron Diamond Aids Research Centre di New York e il belga Rega Institute sostiene che nel nostro patrimonio genetico siano ancora presenti virus che esistevano già nell’era dei dinosauri. La ricerca, finanziata dal Wellcome trust e dalla Royal Society, mette in luce le origini di una gran parte del nostro materiale genetico del quale ancora molti sono i lati oscuri. Gli scienziati hanno studiato il genoma di 38 mammiferi, tra i quali esseri umani, topi, ratti, elefanti e delfini. Durante la sperimentazione i ricercatori hanno individuato un virus che circa 100 milioni di anni fa ha probabilmente “invaso” il genoma di un antenato comune, visto che i suoi resti sono stati ritrovati in tutti i mammiferi esaminati. Un altro avrebbe infettato un progenitore dei primati e infatti è stato trovato in scimmie, esseri umani e altri primati. Lo studio, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha sottolineato che molti di questi virus hanno perso la capacità di trasferirsi da una cellula all’altra. Ma d’altro canto si sono evoluti per vivere all’interno delle cellule ospiti dove proliferano più facilmente, e dove trascorrono il loro intero ciclo vitale. I ricercatori hanno trovato prove così evidenti della moltiplicazione dei virus nel genoma dei mammiferi da paragonare questa condizione al focolaio di una malattia. Robert Belshaw del dipartimento di zoologia dell’Università di Oxford, ha sostenuto che “questa è la storia di un’epidemia all’interno del genoma di ogni animale, una storia che va avanti da 100 milioni di anni e che continua ancora oggi. Noi sospettiamo che questi virus siano costretti a fare una scelta: o mantenere la loro essenza virale e diffondersi tra le varie specie animali o concentrarsi su un genoma per colonizzarlo”. Secondo il team di studiosi i virus coinvolti hanno perso un gene chiamato Env, responsabile della trasmissione da una cellula all’altra. Chiamati anche retrovirus endogeni, questi microrganismi sono aumentati di trenta volte vivendo rinchiusi nelle cellule ospite. Sorprendentemente solo l’1,5% del materiale genetico presente nel nostro Dna ha una funzione strettamente biologica. La metà di tutto il resto, a volte chiamato anche “Dna spazzatura”, non ha alcuna funzione nota e l’altra metà è costituita da geni introdotti da virus e altri parassiti. Secondo Gkikas Magiorkinis, a capo della ricerca, “gran parte della materia oscura nel nostro genoma agisce con regole proprie, allo stesso modo di un’epidemia di una malattia infettiva, rimanendo però attiva per milioni di anni. Comprendere quali siano le regole di quest’antico gioco ci aiuterà a comprendere quale impatto abbiano questi virus sulla salute e sulle malattie”. Robert Belshaw ritiene che i retrovirus endogeni non abbiano effetti sulla salute umana ma aggiunge che ” potrebbero esserci condizioni che non abbiamo considerato o esperimenti che non abbiamo ancora fatto e magari un giorno potremmo trarre vantaggio dalla scoperta che i retrovirus endogeni in realtà si muovono o che producono una particolare proteina in presenza di un’infezione o di un tumore”.



Dal mignolo di una ragazza di 40 mila anni fa ritrovata in una grotta siberiana, gli esperti del Museo di Storia Naturale di Londra ritengono di avere compreso la vera origine degli uomini di oggi. Secondo gli studiosi inglesi infatti sarebbe possibile smentire la teoria che sostiene che gli uomini siano emigrati dall’Africa 60 mila anni fa per andare a sostituire tutte le altre razze allora esistenti. In realtà l’analisi genetica dimostra che l’uomo moderno incontrò e si incrociò con almeno due diverse specie di antichi umani: i Neanderthaliani e i Denisovani, una misteriosa razza che viveva in Asia 30 mila anni fa. La ricerca, guidata dal paleoantropologo Chris Stringer, è giunta a queste conclusioni avvalendosi delle mappature dei genomi dei Neandertaliani e dei Denisovani, realizzate dagli esperti di antropologia evolutiva del Max Planck Institute di Leipzig, in Germania. Dopo avere comparato i corredi genetici con quelli dell’uomo moderno, i ricercatori hanno determinato che un 2.5 percento di Dna neanderthaliano è presente negli esseri umani attuali che discendono da coloro che 60 milioni di anni fa lasciarono l’Africa, mentre in alcune etnie dell’Oceania è reperibile circa il 5 per cento di Dna dei Denisovani. “In un certo senso – conclude Chris Stringer – noi siamo una specie ibrida”.



Un team di ricercatori cinesi dell’Università di Hong Kong ha mappato interamente, per la prima volta, il genoma di un feto, segnando un possibile punto di svolta nel campo delle diagnosi prenatali.
Il procedimento potrebbe sostituire l’amniocentesi: costa 200mila dollari ma è in arrivo un test più economico.

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I ricercatori del Kew Botanical Gardens di Londra hanno scoperto che è una pianta ad avere il genoma più grande mai decodificato. La Paris japonica, un pianta da fiore che come dice il suo nome è originaria del Giappone, non trae però grandi vantaggi dal suo primato che anzi la pone a rischio di estinzione. Infatti più Dna è presente in un genoma, tanto più lungo tempo è necessario a una singola cellula per copiare tutto il proprio corredo genetico e riprodursi. Inoltre le piante con un genoma grande sono meno adattabili all’inquinamento e non hanno una grande resistenza alle condizioni ambientali estreme. Le dimensioni di un genoma vengono misurate in picogrami di Dna (un miliardesimo di milligrammo) e quello della Paris Japonica è di 152.23 picogrammi, vale a dire cinquanta volte più grande di quello umano. Il più piccolo è quello dell’Encefalozoo intestinale, un parassita umano e dei mammiferi, che possiede soltanto 0.0023 picogrammi di Dna.